Il 2 febbraio dall’aeroporto di Nairobi, dove mi sono fermato per otto giorni di incontri con i miei fratelli, atterro a Goma, città principale del Kivu, la grande regione dell’est del Congo.
Dico tra me che ora sono veramente in Africa. Immediatamente sono sommerso dalle tante persone che affollano le strade, tra gente a piedi e infinite moto che scorrazzano in tutti i modi possibili, animando loro malgrado le strade. Ai bordi mille piccoli mercatini, dove si trova di tutto. Tanti colori e odori, gente che discute, sicuramente per contrattare un prezzo, altri chissà perché. Le persone sono comunque in relazione tra loro, secondo un piano segreto che rende le strade così animate.
Percorrendole vedo subito un lungo muro decrepito sormontato da una rete di sicurezza. Ha molte crepe e tanti colori. Mi balza subito agli occhi come un’immagine di questo paese tormentato. Un colore di base, una grande risorsa di umanità e di natura, bruciato in tanti altri; tante fessure che sembrano farlo cadere, eppure resiste; una rete che vuole difendere, ma non ci riesce.
Man mano che incontro persone ascolto le storie di una guerra che si trascina ormai da quasi trenta anni. Questa terra di confine è troppo ricca di risorse minerarie e questo attira gli appetiti senza scrupoli di troppi nel mondo. Sappiamo tutti che i nostri telefonini non funzionerebbero senza il coltan, che qui è abbondante. Alcuni mi hanno detto che loro parenti e conoscenti contadini hanno trovato oro e altri minerali, solo smuovendo il terreno.
La zona poi è di confine e come sempre ognuno reclama quella terra. Le potenze internazionali, dai paesi alle tante realtà finanziarie, vogliono ottenere vantaggi politici e smisurati profitti. Tutto questo attraversa le persone che vedo scorrere come in un film davanti ai miei occhi, attori ignari di un dramma che li supera di molto.
Incontro adulti e giovani, anche ragazzi e ognuno mi racconta un pezzettino di questo dramma. Saluto nella sua casa il vescovo di Goma, il quale, come un pastore attento, mi sa narrare quello che accade. La sua enorme diocesi è oggi divisa in due per gli scontri tra ribelli e governativi e lui stesso non può visitarla per intero. Mi racconta del recente incontro proprio a Goma dei vescovi del Congo, del Rwanda e del Burundi, un segno concreto di pace e di riconciliazione possibile.
Il 3 febbraio mattina, dopo la preghiera e una veloce colazione, i frati e le suore francescane che vi lavorano mi portano in un campo profughi. È il più piccolo dei quattordici che circondano la città con circa 75mila persone. I conti sono presto fatti: da 800mila a un milione di profughi provenienti da tutto il Kivu e anche dai paesi vicini, sono gli ospiti di una indicibile miseria.
Entriamo nel campo in punta di piedi. Anche qui centinaia di persone che camminano, non si capisce bene perché. È qualcosa che mi ha sorpreso fin dalla mia prima volta nel continente. Tutti camminano, apparentemente senza meta. Certo, perché pochi dispongono di mezzi, ma c’è qualcosa di più. Muoversi, spostarsi sembra far parte dell’anima profonda di questo paese. La gente qui cammina e ciò ne descrive il modo di stare al mondo, da nomadi.
Subito i bambini e le donne ci circondano. Saluto, stringo mano, accarezzo tante teste e volti. Apertura da una parte e pudore dall’altra mi svelano ancora un modo di essere di queste persone e ne resto sempre affascinato. All’improvviso ci viene incontro una piccola donna, gridando in swahili e agitandosi. Per un momento fa quasi paura, poi ci rendiamo conto che è come il giullare del villaggio. È una pigmea e lo dice con orgoglio, rivendicando che questa terra appartiene al suo popolo che vi ospita tutti gli altri. Comincia a cantare e a danzare, coinvolgendo immediatamente tutti coloro che ci hanno circondato; nel buio di questo inferno si accende una luce grazie alla follia, che ci fa vedere la realtà in un altro modo e sprigiona la capacità di queste persone ferite e violate in tanti modi ogni giorno di ritrovarsi, unirsi, fare festa. Il canto, le mani che battono e i passi di danza trasformano la realtà e fanno sentire la voglia di vita e di libertà che tutti portano in sé, brace viva sotto la cenere.
Arriviamo davanti a una grande depressione del terreno, pieno di bambini e di donne, riuniti in tre gruppi e molto agitati. È il momento della distribuzione di una scodella di riso per i piccoli. Tra polvere e rifiuti, scendiamo in questa grande fossa, dove esseri umani, lo ripeto esseri umani, fanno la fila e gridano per un pugno di riso. Ho visto già molte volte questa scena, ma è pur sempre un pugno allo stomaco. Davanti a me due bambini arrivano alle mani per un nonnulla, la violenza ormai fa parte del loro modo di essere. Tanti sono ben ordinati in fila e aspettano. Non sono stupiti dalla nostra presenza. Si fanno vicini e poi ci circondano. Mi ritrovo sommerso da piccole mani che vogliono un contatto, che chiedono cose per me incomprensibili. Con le suore mi metto a distribuire il riso già cotto. È un gioco di scodelle. Si accorgono senza dubbio che sono inesperto e sanno che possono riceverne di più e io ne metto quanto posso in ciascun recipiente. Non credo che ci sarà una moltiplicazione del riso, ma so che basterà per tutti.
I bambini sono lo stigma di questa guerra. In una delle minuscole tende di tela che ospitano questi poveri, entro e vedo ben quattro madri con i loro figli di pochi giorni. Mi accolgono con un sorriso bellissimo e mi fanno posto, dove posto non c’è. Mi porgono uno dei bambini, di soli tre giorni. Il cuore batte forte. La vita nasce in questa bolgia e il sorriso delle madri ne dice tutta la forza. Sono le donne a portare questa situazione e a tenerla in piedi, nonostante tutto.
Incontro altri bambini orfani o abbandonati sul nascere, forse frutti delle innumerevoli violenze che si consumano in questa terra. Uno di loro prende i miei occhiali, vuole toccarli, un altro vuole venire in braccio, un altro si ritrae. I loro sguardi dicono tutto, senza parole, come quello delle donne anziane, belle e piene di dignità con le loro rughe, i bastoni e il passo incerto.
Queste persone vivevano nei loro villaggi in modo dignitoso e sicuro. Ne sono stati cacciati dalla guerra, dalle razzie e violente dei vari eserciti, dalle grandi imprese straniere che fanno terreno bruciato per deforestare e sfruttare senza scrupoli i terreni troppo ricchi. Sono numeri.
I bambini non ci vogliono lasciar andare. Mentre siamo circondati da loro, parliamo con i responsabili del campo per capire quale goccia di vita possiamo lasciar cadere su questa terra bruciata.
Ci raccontano che solo ieri sera una bomba è caduta qui vicino, dietro una scuola: i bambini sono tutti salvi. Questo miracolo dà la misura della forza della vita. Si può sperare ancora. Ci parlano dei tanti, troppi segni di traumi e di sofferenze psichiche. Sono necessari centri d’ascolto e di aiuto.
C’è bisogno di tutto. Soprattutto che tante potenze del mondo, che qui fanno affari sulla pelle di queste persone e vi disegnano le loro sfere di influenza e di potere, si siedano a un tavolo e decidano come uscire da questo stallo troppo lungo.
Una guerra dimenticata, una delle tante. I poveri ne pagano le conseguenze più grandi.
Esco dal campo gridando dentro di me: “Fino a quando, Signore?”.
Fr. Massimo Fusarelli
Ministro Generale OFM
Publicato nel L’OSSERVATORE ROMANO (5.02.2024)